Sto considerando quanto sia
piacevole poter indossare ancora gonne leggere in questo fine settembre, quando
scorgo la sagoma del bus delinearsi in fondo alla discesa…
Come ogni giorno, l’autobus delle sei e quarantacinque, che ci
porta alla fermata della metropolitana dell’EUR, è talmente pieno di persone
che sembra impossibile riuscire a guadagnarsi un posto tra l’equipaggio.
Per questo ho preso l’abitudine di farmi una passeggiata a
ritroso nel percorso del bus, fino alla fermata precedente alla mia. Questo,
ovviamente, per conquistare, con meno fatica, uno spazio all’interno di quel
cetaceo su quattro ruote.
L’autobus si ferma davanti a me. Riesco a salire.
Dopo una mezza dozzina di inutili tentativi, finalmente le porte
si chiudono dietro di me.
Il mezzo riparte per fermarsi alla fermata successiva; quella
dove sarei dovuta salire io, se non avessi fatto la solita passeggiata a
ritroso.
Quella era l’ultima fermata del centro abitato. Poi
l’Enterprise, così l’avevo ribattezzato, avrebbe affrontato un lungo tratto di
strada prima di arrivare in prossimità dell’Eur.
Nove minuti
Nove minuti: un tragitto la cui durata spesso, giocando e
facendo scommesse sull’argomento, avevamo cronometrato.
Come sempre, altre persone riescono a salire a quell’ultima
fermata, con il risultato di comprimere ulteriormente il resto dell’equipaggio.
Nella mia posizione, immobilizzata come sono, riesco appena ad
intravedere quanti possano essere gli umanoidi che anelano un posto
sull’Enterprise. Tanti. Ma soltanto tre persone riescono a salire.
Dietro di me un uomo dall’aria distinta che avevo notato anche
altre volte. Non avrà più di 40 anni.
Di fianco a lui un altro uomo, molto più in là con gli anni; non
ho ancora affinato la capacità di saper assegnare l’età agli altri ma
sicuramente quest’ultimo deve averne almeno sessantacinque di anni. Il terzo,
compressi come siamo, non riesco nemmeno a vederlo.
Penso di essere stata fortunata, a trovarmi dietro il più
giovane, visto che di solito quelli anziani non si reggono in piedi, non so se
davvero oppure facciano finta per carpire una rapace palpata.
Finalmente le porte si richiudono. Partiamo, per affrontare come
sempre, quei nove minuti.
Nove minuti in cui, chi è riuscito a salire sopra, può tirare un
respiro di sollievo: almeno per quella mattina, e almeno su quel bus, ha smesso
di guerreggiare.
Sto pensando che è un modo certamente estenuante per cominciare
la giornata e mi rinfranco considerando che a scuola avrò un orario leggero:
escluso un’ora d’anatomia e una di religione, il resto sono solo materie
artistiche.
Di colpo, il silenzio.
Non più il brusio delle persone.
Non più il motore che sforza in salita.
Solo il silenzio.
E quella mano.
Il contatto della mano di uno sconosciuto.
Non è un contatto casuale, ne sono certa.
È la prima volta che vivo con tanta consapevolezza quella
situazione.
Sicuramente è già accaduto altre volte ma non vi ho mai dato il
giusto peso; non ho ancora sviluppato questo tipo di malizia.
E soprattutto non mi capacito di essere io, così giovane,
oggetto d’attenzione da parte di un adulto che avrà almeno il doppio della mia
età.
Un’attenzione che percepisco con un semplice contatto.
Un soffio, quasi.
Leggero come un battito di ciglia.
Tutto attorno è un pigiarsi e pressarsi, indipendentemente dal
sesso e dall’età; mentre dietro di me, solo dietro il mio culetto, c’è il
vuoto.
E quella mano.
Una delicata mano che mi lambisce appena, senza nessuna
pressione ma con intenzione inequivocabile.
Nove minuti. E ne rimangono almeno altri sette.
Mi chiedo: “Chissà cosa gli passa per la testa a questo qui?”
E ancora: “Ma non ce l’avrà una ragazza? Perché non va a
scocciare lei, invece di infastidire una sconosciuta? M’è sembrato anche un
bell’uomo. Non credo che gli manchino le occasioni…”
Penso e intanto, decisa a non lasciare andare le cose senza
reagire, porto il gomito sinistro di lato, in modo da allontanare lo
sconosciuto, premendoglielo sotto il costato.
Ma più premo forte e più forte è la sua resistenza alla
pressione del mio gomito. Percepisco nettamente i suoi addominali indurirsi
sotto la mia spinta.
E la sua mano dietro di me non molla.
Avverto un inedito senso di calore nella pancia. Non so se è
rabbia o che altro.
Riconoscendo quel poco di paesaggio che riesco a scorgere,
deduco che mancano circa sei minuti al capolinea. Ancora sei minuti in cui devo
pazientare.
Intanto, con piccoli e quasi impercettibili tentennamenti, sento
che la sua mano si fa sempre meno leggera fino a diventare complementare
alle forme del mio didietro. Riconosco l’indice e il pollice poggiati
sulla natica destra, il medio insinuarsi in mezzo al solco e l’anulare e il
medio sull’altra natica.
“Insomma non vuole proprio smetterla? A quest’ora del mattino,
pensa già a queste cose? Ma non ha paura che qualcuno lo veda?”
Vorrei proprio che qualcuno lo vedesse, così farebbe proprio una
“bella figura”.
Però anch’io farei una “bella figura”, dal momento che non ho
ancora protestato.
Forse perché sono impietrita dalla sorpresa e soprattutto dal
contrasto di quel che sto vivendo: è vero che istintivamente ho serrato le
gambe ma è anche vero che senza accorgermene ho cominciato ad apprezzare quel
massaggio.
No. Ma cosa sto pensando!?
È insano, quel che mi passa per la testa. Eppure non credo di
essere impazzita.
Raccolgo la mia lucidità e torno a “disprezzare” quell’ uomo,
quell’ aguzzino che sta violando parte della mia intimità.
Forse nel serrare le gambe ho reso il mio culetto ancora più
sodo, perché l’ho sentito emettere un mugugno di apprezzamento. Quel grugnito
non è l’unica cosa che ho captato nettamente.
Avverto il suo respiro caldo infrangersi e distribuirsi tra i
miei capelli. Ho ancora i capelli lunghi e lisci: ultimo residuo di un
romanticismo tipico della mia età.
Il calore che fino allora avevo avvertito allo stomaco stava
scendendo, presentandomi una sensazione nuova, proprio lì, in mezzo alle gambe.
La sua mano si è impossessata della mia natica destra e ha preso
a roteare lentamente e comprimermi la parte di carne che è riuscita a
conquistarsi.
Stringe e rilascia. Intuisco la sua soddisfazione dal ritmo
lento e costante che imprime alla sua mano.
Di nuovo mi sento pervadere da quella sensazione di piacere per
quel massaggio morbido e deciso.
Ma ancora una volta la ragione mi dice che ciò che sta accedendo
non è giusto e per questo gli sferro una decisa gomitata nello stomaco.
Non molla.
Sgrano gli occhi.
Vorrei gridare, cercando aiuto, ma la mia salivazione è pari a
zero e quel che sto subendo mi paralizza.
Di nuovo cerco di farmi forza pensando che dovrò subire ancora
per poco quella tortura.
Ad un tratto sento la sua mano mollare la presa.
La pressione del mio gomito lo ha allontanato, penso. O
forse si è accontentato di quel che ha ottenuto.
Per prudenza, comunque, mi sposto più verso il centro della
porta, avvicinandomi all’altro uomo, quello anziano.
Faccio appena in tempo a tirare un sospiro di sollievo quando
capisco che non si è spostato per la mia gomitata, ma soltanto per mettersi più
comodo.
Infatti, le mani ora sono due. Una per ogni natica.
Sto per piangere.
Guardo l’orologio contando i pochi minuti che mancano: tre,
quattro al massimo..
Le mani prendono possesso delle mie rotondità aderendo con
decisione al mio culetto.
Sono impietrita e indispettita per l’ indifferenza che c’è sull’
autobus.
Mi volto in ogni direzione, cercando aiuto con lo sguardo. Non
c’è nemmeno una persona di sesso femminile alla quale rivolgere una richiesta
di aiuto.
Un ultimo tentativo: guardo alla mia sinistra ma la persona che
sta di fianco a lui, l’anziano, è immobile, con lo sguardo fisso sulla nuca
della persona che ha davanti.
È incredibile. Siamo sei persone per metro quadrato e pare che
io sia l’unica ad accorgersi di quanto sta accadendo.
Mi volto per sfidarlo con uno sguardo eloquente. Naturalmente
non incrocia i miei occhi.
Mi rendo conto che ha un’aria indifferente, incorniciata in una
posa di sincera innocenza. Una posa, la sua, ne sono certa, che renderebbe
veramente poco credibile una mia denuncia gridata al resto dell’equipaggio. È
più facile che io possa esser presa per una pazza paranoica.
Ma ora, forse un sobbalzo, ha costretto il mio persecutore
a cercare un appiglio, perché ora la mano è di nuovo una sola. Abbrancata alla
mia natica sinistra.
Ma è solo il pensiero di un attimo. Indosso una lunga gonna di
tessuto leggero, di tipo provenzale. È la fine di settembre e il tempo, come
sempre a Roma, consente ancora un abbigliamento leggero.
“Questo è veramente troppo!”, penso.
La destra dell’uomo sta raccogliendo il tessuto della gonna,
sollevandolo per farlo scorrere oltre il suo polso.
Grido dentro di me: “Mi sta sollevando la gonna!”.
Capisco in quel momento il significato del concetto espresso
dalle compagne più grandi, per cui i jeans sono molto più pratici.
È evidente che si senta incoraggiato dal mio silenzio.
Capisce che ormai sono una preda in mano sua.
Una strana eccitazione si impossessa di me. E quando dico strana
è perché non so davvero descrivere cosa sto provando.
La mano, la destra, che stava sollevando la gonna ha finito
probabilmente il suo lavoro perché, per un attimo, non avverto più nessuna mano
sul mio corpo.
Dopo un’attesa di pochi secondi avverto il calore di un dito, un
polpastrello soltanto, che scorre lungo il confine tra le mie mutandine e la
mia pelle.
Si sta dedicando ora all’esplorazione sotto la gonna. È in
prossimità della parte inferiore del gluteo che insiste nella sua azione di
esplorazione. Proprio lì dove, con una piega naturale, nasce la natica.
Il movimento è lento da destra a sinistra e viceversa.
Dal centro del mio culetto verso l’esterno.
È un movimento col quale il mio aguzzino mi trasmette tutta la
sua eccitazione. Soprattutto per la temerarietà del suo gesto: una mano sotto
una gonna, su un autobus pieno di gente.
Non capisco più nulla: vorrei che fossimo già all’Eur ma allo
stesso tempo, per non perdere nessun movimento di quel polpastrello, socchiudo
gli occhi.
Mi risveglio da quella strana estasi quando mi sussurra qualcosa
nell’orecchio.
Non riesco a capire cosa ha detto.
Ma uno stato di terrore vero e proprio mi assale quando sento le
nocche della sua mano destra sfiorarmi. Determinano un percorso che,
all’altezza del mio culetto, in un unico movimento va dall’alto verso il basso.
Realizzo cosa sta facendo: si sta aprendo la cerniera lampo dei pantaloni!
Voglio urlare, dargli del porco, ma la salivazione è ormai
praticamente inesistente e il mio tentativo di dire qualcosa mi rimane
strozzato in gola.
Il paesaggio che scorre oltre la testa delle persone, mi da la
certezza che mancano poco più di due minuti al capolinea.
Avverto un calore, questa volta fisico, esterno al mio
organismo. È la carne del suo membro, con la punta verso il basso, poggiata
delicatamente in mezzo al solco delle mie natiche.
La sua mano porta quel bastone di carne ad aderire perfettamente
all’interno del solco.
Le mie narici si sono allargate e il respiro si è fatto più
profondo. I miei occhi sono appena dischiusi. Socchiudo e mi umetto le labbra
con inedita voluttà.
La sua mano destra tiene aderente il suo sesso in mezzo alla mia
fenditura.
Se lo sta carezzando lentamente su e giù.
La sinistra, intanto, mi palpa la natica sinistra mentre mi
allarga il solco per portare il suo sesso più all’interno possibile, in mezzo
ai miei glutei.
Avverto il calore del suo cazzo attraverso il tessuto delle mie
mutandine.
L’azione della sua mano lo porta all’orgasmo. Ne sono certa.
Avverto i fiotti che mi sta scaricando addosso.
Due, tre, quattro… non so quanti getti colpiscono l’interno
della mia coscia sinistra.
Li avverto, caldi.
Scendono vischiosamente lungo la mia gamba…
Manca un minuto alla fine del viaggio.
Il bus si ferma.
Qualcuno ha prenotato la fermata per scendere prima del
capolinea.
Quel “qualcuno” dietro di me grida: “Apre?!”
La porta al mio fianco si spalanca.
La mia gonna cala lungo le mie gambe, mentre il mio aguzzino
scende dall’autobus.
Non ho il coraggio di voltarmi per guardarlo negli occhi.
Il cuore mi batte forte.
Da allora, pur prendendo lo stesso autobus per almeno tre anni,
ci siamo sempre ignorati.
E di questo, almeno, lo
ringrazio.
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per eventuali commenti in privato:
marcotani20@libero.it
non so se sia più erotico o più porco... non c'è nemmeno un atto di penetrazione, eppure... eppure... eppure prende. mi sono trovata spesso a dovermi difendere a forza di gomiti e pestate sui piedi ma vista così... insomma... la situazione ha qualcosa di particolarmente godibile
RispondiEliminapaola
16/2/12
ha ragione, paola... non c'è atto sessuale. nn ci avevo fatto caso quando l'ho letto la prima volta. eppure m'ha preso... e parecchio!
RispondiEliminaPrende anche se non c'è penetrazione è vero,quel "gioco" fatto li è molto erotico,la tentazione sarebbe stata di proseguire,ma ormai si era arrivati alla fermata :)
RispondiEliminaSemplicemente per rimproverare gli attori(nel senso pieno di autori vissori di detta raccontata avventura) se consapevoli e soddisfatti, PERCHE' NON CONTINUIARE?
RispondiEliminaciao, gaetano
Eliminacontinuare avrebbe significato snaturare l'esperimento: l'obiettivo era eccitare senza ricorrere ad azioni sessuali intese in senso fisico.
comunque, grazie per il commento costruttivo e provocatorio
il blog è fermo. a quando un nuovo racconto?
RispondiEliminaHai ragione. questo blog è fermo perchè raccoglie i miei primi racconti. ce n'è una seconda serie, più recente in un altro mio blog, che troverai a questo link
Eliminahttps://confessionidiunerotomane.blogspot.com/
Io l ho fatto a scoparmi una ragazzina sull autobbus glielo messo e ho schizzato subito e poi o uscito di corsa alla fermata
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